La fisioterapia che cura solo il dolore… non è fisioterapia
Umberto Mantovan
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Alla fine di questo articolo capirai perché il dolore non è l'unica cosa che considero durante i miei trattamenti e, nonostante tu abbia già provato diverse terapie, non sei ancora tornato alle tue attività preferite.
Ma prima di iniziare lascia che mi presenti.
Mi chiamo Umberto Mantovan, sono un fisioterapista in libera professione e da 5 anni e mi occupo di problematiche muscolo-scheletriche.
Nel 2025 è nato il mio studio di Broni (PV) con un’idea precisa: la fisioterapia non è soltanto terapia manuale, ma un percorso che unisce competenze cognitive, ascolto e comunicazione per restituire autonomia e qualità di vita alle persone.
Bene, possiamo cominciare!
Una domanda che mi faccio spesso è:
“perché sia i pazienti che i professionisti si focalizzano sul dolore piuttosto che sul recupero dei movimenti e delle attività?”
Cercherò di rispondere in base alla mia esperienza da entrambi i punti di vista.
Dal punto di vista del paziente:
Immediatezza della percezione:
Il dolore è un'esperienza diretta e tangibile che il paziente vuole eliminare il prima possibile.
Visione semplicistica:
Esiste la convinzione che "se ho male, devo avere qualcosa che non va" .
Automaticamente se i sintomi spariscono, il danno non è più presente.
Riduzione dell'ansia:
Il dolore genera ansia e la sua diminuzione offre un sollievo mentale immediato.
Paura e catastrofizzazione:
spesso le persone hanno la tendenza a sovrastimare il dolore e catastrofizzano di conseguenza il loro problema.
Facilità di misurazione:
il dolore, anche in ambito clinico, viene utilizzato come oggetto di valutazione e questo fa si che anche per il paziente diventi di primaria importanza.
Luoghi comuni diffusi:
generano paura, smarrimento e confusione:
il paziente non sa più a chi credere e finisce per cercare soluzioni rapide ma inefficaci, passando da un trattamento all’altro senza mai sentirsi davvero compreso.
Dal punto di vista del fisioterapista invece:
Formazione tradizionale:
Molti fisioterapisti sono ancorati al modello bio-medico che privilegia il trattamento del sintomo ai danni della funzione.
Gratificazione professionale:
Vedere un paziente uscire dallo studio senza nessun fastidio dà una soddisfazione professionale immediata e alimenta il senso di importanza.
Pressione delle aspettative:
I fisioterapisti spesso sentono la pressione di dover "fare qualcosa" per il dolore, rispondendo alle aspettative dei pazienti.
Feedback rapido:
se con una tecnica manuale o una terapia fisica il dolore diminuisce, il paziente è contento e tornerà di sicuro. Lavorare sul movimento richiede più tempo e, spesso, più fatica. E questo può compromettere l'attaccamento al trattamento del paziente.
Falsi miti:
anche tra fisioterapisti sopravvive la credenza che “prima bisogna togliere il dolore e solo dopo si può rinforzare o muovere”.
Comunicazione superficiale:
frasi come “hai un blocco” o “hai un’infiammazione che va spenta” creano l’idea che il dolore sia qualcosa da eliminare subito, non da attraversare gradualmente.
Come vedi, entrambi i punti di vista si basano su concetti e credenze che non hanno nessun fondamento.
Le evidenze scientifiche ritengono necessario considerare i sintomi solo come una delle variabili da gestire all'interno di un percorso più ampio orientato al recupero dell'autonomia funzionale.
In parole semplici, aiutare le persone a tornare a svolgere le attività della loro vita, nonostante il dolore.
Un altro aspetto critico è che, molto spesso, la comunicazione con il paziente viene messa in secondo piano.
Ci concentriamo su test, tecniche, protocolli… ma dimentichiamo che ogni persona porta con sé un bagaglio di paure e convinzioni che influenzano moltissimo il recupero.
Eppure la letteratura è chiara: le componenti comunicative e cognitive sono importanti quanto quelle biologiche.
La sfida è trovare un equilibrio
E' necessario riconoscere l'importanza di alleviare il dolore senza farne l'unico focus del trattamento.
Credo fermamente che i sintomi siano un segnale importante, ma non gli unici parametri con cui valutare il successo di un trattamento.
L’obiettivo è restituire alla persona autonomia, fiducia e qualità di vita.
Lo so, tutto questo va contro ciò a cui siamo stati abituati:
pazienti che chiedono sollievo immediato;
professionisti che si sentono in dovere di darglielo a tutti i costi.
Ed è proprio per questo che questo tema mi sta così a cuore: perché cambiare prospettiva significa cambiare davvero la vita delle persone.
Anche io ho passato i primi anni a studiare tecniche manuali cercando di sentirmi essenziale per le sorti del trattamento.
E così davo vita ai miei spettacolini:
Testavo quello che pensavo fosse la struttura “disfunzionale”.
Somministravo qualche tecnica manuale.
Davo gli esercizi da fare a casa.
Un classico, no?
E poi ci lamentiamo che i pazienti non fanno nulla di quello che gli diamo da fare…
Certo, se non glielo faccio fare nemmeno in studio, che messaggio gli sto dando?
Pensavo che togliendo il dolore, tutto sarebbe tornato a posto.
Che il paziente avrebbe ricominciato a fare ciò che faceva prima, in automatico.
Ma intanto, le sue paure e le sue credenze…
…restavano lì.
Inascoltate.
Mi sbagliavo di grosso insomma.
E l'ho capito solo quando ho smesso di concentrarmi sul sintomo e su cosa dovessi fare io e ho iniziato a indagare insieme ai pazienti le loro paure e quello che si nascondeva sotto di esse.
Ho capito così che lavorare sui reali bisogni di una persona è molto più difficile.
Recuperare un movimento che non si fa da diverso tempo implica molto di più. Significa toccare corde biologiche, certo, ma soprattutto psicologiche e comunicative.
La comunicazione non è un optional.
La comunicazione di solito viene messa in secondo piano.
All'inizio, anche io mi limitavo a smontare passo dopo passo ogni convinzione errata che la persona sdraiata sul mio lettino mi lanciava addosso.
Però il messaggio spesso non veniva recepito al 100%, c'era sempre quell'alone di scetticismo.
Questo perché a nessuno piace essere contraddetto sulle proprie idee. A nessuno piace sentirsi fare la lezioncina da uno più giovane.
Allora ho cominciato a chiedermi come poter migliorare il mio modo di parlare con i pazienti.
Alla fine sono arrivato ad una conclusione tanto semplice quanto difficile da mettere in pratica:
Il coinvolgimento è (quasi) tutto
Se la persona che hai davanti non è parte del processo cognitivo nascosto dietro al suo problema, cercherà la soluzione sempre al di fuori di sé.
Ecco cosa mi mancava.
Mi preoccupavo solo di smentire il prima possibile ogni luogo comune, senza andare ad approfondire cosa si nascondesse dietro.
La verità è che il sintomo e le credenze sono solo la punta dell’iceberg.
Non si tratta MAI solo di dolore
Puoi anche uscire senza più nessun fastidio dal mio studio, ma se continui a pensare che:
“Ho una lesione alla spalla, quindi non posso sforzarla.”
“Fare sport è rischioso per le mie ginocchia”
“la mia schiena è fragile.”
…quel dolore, presente o passato che sia, continuerà a condizionarti per sempre.
Per questo io non mi limito più a fare la predica sul dolore o sulla problematica. Cerco di approfondire:
il senso di ciò che stai vivendo,
cosa si nasconde dietro la paura di muoverti,
cosa ti impedisce davvero di tornare a fare ciò che ami.
Il mio lavoro è aiutarti a recuperare fiducia, libertà e autonomia nei movimenti. Non solo farti passare un dolore, ma darti strumenti pratici per gestirlo — oggi e in futuro.
Per questo motivo, quando un paziente arriva nel mio studio, dedico sempre del tempo a comprendere non solo dove e quanto fa male, ma soprattutto quali attività della vita quotidiana sono compromesse e quali obiettivi desidera raggiungere.
È essenziale riprendere le attività che danno significato alla vita.
✍ La tua esperienza conta
Che tu sia paziente o collega, raccontami la tua storia: può aiutare altri a capire cosa significa davvero fare fisioterapia.
📢 Se pensi che questo articolo possa essere utile, condividilo. Insieme possiamo far conoscere i veri valori di questa splendida professione.
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